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“TEMPO DI AVVENTO”, L’EDITORIALE DEL CARD. LOJUDICE PER L’OSSERVATORE ROMANO

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Anche quest’anno sta per tornare l’Avvento: un tempo, quello che inizierà domenica prossima, che può portare alla riflessione, alla luce, un tempo per riaccendere tante nostre speranze. Quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo è un periodo che ha portato ombre, incertezze, che ha incrinato rapporti, che ha moltiplicato violenze in famiglia, che ha evidenziato limiti e criticità, e ancora di più oggi, nelle non ragionevoli posizioni che si oppongono alla tutela della salute pubblica, presenta tutte le sue contraddizioni. Ma noi siamo dentro questo mondo, non in un altro e in questo siamo chiamati a portare la parola del Vangelo con coraggio e dignità. Se è vero che «la realtà è superiore all’idea» non dobbiamo in alcun modo arrenderci alle contraddizioni del mondo ma gestirle, integrarle, “elaborarle” affinché non ci abbattano e ci demotivino: e questo vale per noi vescovi, per i sacerdoti, per tutti i credenti, uomini e donne impegnati nel vivere la fede.
Quando ero padre spirituale in seminario uno dei suggerimenti più frequenti che davo ai seminaristi era quello di «prepararsi a gestire le tensioni e le delusioni», dentro e fuori la Chiesa, che avrebbero caratterizzato tanta parte del cammino di vita sacerdotale; abituarsi a partire dalle più piccole cose, quelle apparentemente insignificanti ma che sono la sostanza delle nostre giornate, che spesso si sarebbero presentate uguali, ripetitive, monotone, anche nella vita sacerdotale: qualche messa, un po’ di catechismo, tanti funerali. Non so se sono stato convincente in questo insegnamento ma spero che gli allora seminaristi, attuali preti, continuino ad aver voglia di annunciare il Vangelo, in ogni modo e in ogni situazione. L’ascolto-dialogo che la prima fase del cammino sinodale ci sta chiedendo potrà essere una buona occasione per riscoprirci in relazione con tutti, credenti e non, in occasioni che dobbiamo avere la pazienza e la fantasia di inventare o reinventare per ridare uno slancio alla nostra responsabilità di portare il Vangelo a tutti.
In questo periodo ho riletto il Dialogo di santa Caterina: ho ritrovato in questa giovane donna una passione unica, una forza d’animo eccezionale, un’esperienza mistica profondissima e, forse, irripetibile; ma lei c’è riuscita, per lei Gesù era tangibile, ascoltabile, visibile, come ricorda Giovanni nella sua prima Lettera: possiamo riuscirci anche noi a fare questa sua esperienza. Dal momento che non aspettiamo uno sconosciuto ma Colui che, in forza del battesimo, siamo chiamati a seguire e, come credenti, abbiamo scelto di imitare in modo singolare, vivere il tempo dell’Avvento comporta guardare all’incarnazione del Figlio di Dio e, alla luce di questa, esaminare la nostra personale incarnazione, per vedere se questa corrisponde alla sua.
Domenica scorsa ho vissuto, come tutti i vescovi, la Gmg diocesana: eravamo a Colle di Val d’Elsa, paese a nord di Siena. Il responsabile della pastorale giovanile aveva invitato, su suggerimento di alcuni ragazzi, un giovane prete di Milano, molto attivo e molto seguito sui social, che ha parlato della sua esperienza di vita, animazione e formazione in oratorio. C’erano circa quattrocento giovani, dei vari gruppi, delle varie realtà ecclesiali e parrocchiali. Pochi? Tanti? Non lo so: anche se spesso cadiamo in questa trappola, la fede non è mai un problema di numeri. I numeri ci ingannano, ci fanno sentire il peso di un’inadeguatezza, ci fanno vivere una concorrenza con i confratelli certamente non produttiva o, peggio ancora, al contrario, possono illuderci, farci credere cose che non sono, farci sentire bravi e capaci e innestare dentro di noi pastori, sacerdoti o vescovi, delle tentazioni sottili e penetranti, pensandoci capaci di chissà che o, al contrario, inadeguati e incapaci. Per me è stato importante che questi giovani abbiano potuto sperimentare il valore di una comunione spirituale che li rende fratelli, di una passione che, se coltivata, continua a farli sognare, di una forza che viene dall’unione tra loro e che può veramente convincerli che il mondo può essere diverso se si vive in un certo modo, se si segue Gesù e il Vangelo nella vita di ogni giorno.
“Principe della pace” è uno degli appellativi che la Scrittura dà a Colui che deve venire: la pace riassume tutti i doni di Dio. È il benessere, il trovarsi in un senso di pienezza e di compimento. Innanzitutto nel rapporto con Dio: pace vuol dire che l’uomo si trova davanti a Dio sentendosi a proprio agio. Non come Adamo che si è nascosto alla sua presenza e neppure come Caino che è dovuto fuggire. In pace con Dio, riconciliati. “Riconciliati con Dio” vuole anche dire in pace con se stessi, come persone che si trovano bene a casa propria, che non scappano da se stesse, che non hanno bisogno di fuggire e di nascondersi perché hanno imparato ad accettarsi così come sono davanti a Dio. La pace con se stessi diventa anche pace con gli altri, diventa fraternità e accoglienza. L’Eucaristia ci può dare il richiamo all’attenzione fondamentale che deve essere nel cuore della nostra vita. Innanzitutto, perché quando guardiamo l’Eucaristia siamo di fronte a Gesù Cristo e al dono che lui ha fatto della sua vita. “Un pane spezzato” è la vita di Cristo, e questo ci mette davanti a uno spettacolo, a una prospettiva, che è fondamentale, quella dell’amore del Signore. Nello stesso tempo ci libera evidentemente dal dominio delle cose; dal punto di vista della cosa in sé l’Eucaristia è ben poco, è un pezzetto di pane che costa niente e produce nulla. Eppure abbiamo imparato a capire che lì c’è quello che vale più del mondo intero. Se guardiamo all’Eucaristia, ci rendiamo conto che l’essenziale è qualche cosa di “invisibile agli occhi”, di misterioso, che nasce nell’esperienza del cuore e dell’amore, nella dedizione di sé, nel sacrificio di sé. E proprio tutto questo può diventare per noi l’esperienza dell’attendere, il cammino dell’Avvento.
«La consapevolezza di essere sorretti da una tradizione spirituale che si estende nei secoli dà una salda sensazione di sicurezza davanti a qualsiasi transitoria difficoltà»: diceva così Bonhoeffer scrivendo ai genitori dal carcere in occasione delle festività natalizie. E aggiungeva: «Un prigioniero capisce meglio di chiunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza d’aiuto e colpa hanno agli occhi di Dio un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio si volge proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distogliersi; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annuncio». L’Avvento è veramente tornare a vivere fino in fondo la dinamica che rende la nostra vita una promessa per un di più: vivere per una promessa, per quello che c’è stato promesso, avere uno sguardo che cerca, che è attento ai segni della realizzazione di questo “di più” in ogni cosa.
L’Avvento ci farà incontrare vari personaggi nella liturgia e prima tra tutti ci sarà lei, Maria di Nazareth. Colei che attende “per eccellenza”, colei che prega, che medita, che non reagisce istintivamente, che sa far decantare le cose che accadono, anche le più strane e le più imprevedibili. Disponiamoci dunque nell’attesa della nascita di Gesù ispirandoci a lei e al giusto Giuseppe: serbando e meditando ogni giorno nel nostro cuore la grandezza e l’amore che nascono dalla venuta di Cristo, pur continuando a svolgere i nostri doveri nel lavoro, nella vita familiare, nel servizio agli altri. Come Giuseppe e Maria attendevano che il velo sul mistero si sollevasse, obbedienti in viaggio verso Betlemme, così anche noi possiamo disporci a partire sulla strada di un nuovo anno liturgico, sotto il segno di Maria, e percorrere le orme di colei che per prima ci insegna ad aprire le porte della nostra vita a Cristo.

Card. Augusto Paolo Lojudice, Arcivescovo di Siena-Colle di Val D’Elsa

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